Stress, trauma e resilienza

“Il mondo ci spezza tutti quanti, ma solo alcuni diventano più forti là dove sono stati spezzati”

  E. Hemingway, “Addio alle armi”

La resilienza è “la capacità di far fronte, resistere, integrare, costruire e riuscire a riorganizzare positivamente la propria vita nonostante l’aver vissuto situazioni difficili che facevano pensare ad un esito negativo” (Cyrulnik, 2005).

    È la capacità che ha la persona di “rimanere in piedi” nonostante abbia vissuto un trauma. Per trauma intendiamo ogni esperienza che causa una sofferenza o un’angoscia psichica intollerabile. Un’esperienza si può considerare intollerabile quando va a sopraffare i meccanismi di difesa consueti che Freud (1920) definiva uno “scudo protettivo contro gli stimoli”.

È la capacità degli individui di far fronte allo stress e alle avversità ed uscirne rinforzati o trasformati.

La resilienza non è la semplice capacità di sopravvivere, superare o sfuggire a una terribile sofferenza. Superare una difficoltà non implica automaticamente  essere resiliente. La resilienza è piuttosto la capacità, di fronte a eventi stressanti e traumatici, di riorganizzare la propria vita in maniera positiva, di saper trasformare un evento critico potenzialmente destabilizzante in un motore che consente di riorganizzare la propria esistenza grazie a un nuovo progetto di vita.

L’etimologia della parola ci riporta al verbo latino resalio, iterativo di salio, che significa saltare, rimbalzare. Il termine nasce nell’ambito delle scienze ingegneristiche indicando l’attitudine di un materiale a resistere ad un urto senza spezzarsi, la proprietà che alcuni materiali hanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione.

Resilienza non vuol dire autosufficienza, anzi essasi definisce attraverso un atteggiamento di apertura verso le esperienze (una costante interazione tra natura e cultura) e di interdipendenza nei rapporti con gli altri. E nemmeno invulnerabilità: la resilienza si plasma attraverso le difficoltà, non malgrado esse; i momenti di crisi vanno intesi, nel senso etimologico, come una risorsa, un’opportunità per diventare più forti.

La resilienza “individuale”

Esistono fattori individuali di resilienza, nel senso di caratteristiche proprie di una persona che possono aiutarla nell’affrontare e elaborare esperienze soverchianti di stress. Un primo importante studio fu svolto negli anni ’60 e ’70 da Michael Rutter sui bambini di madri schizofreniche. Notevole fu anche lo studio di Emmy Werner che, con la sua équipe dell’Università di Davis in California, studiò a partire dal 1955 quasi 700 neonati in un’isola delle Hawaii.

200 neonati presentavano una condizione a rischio (per nascite difficili, problemi familiari, condizioni di degrado)

In adolescenza i due terzi di questi neonati presentavano dei problemi (difficoltà di apprendimento, devianza), i restanti mostravano uno sviluppo positivo.

Dalla osservazione degli adolescenti che si erano mostrati più resistenti nonostante la storia traumatica, la Werner notò dei fattori individuali comuni:

  • QI superiore alla media
  • Solide basi morali e spirituali
  • Locus of control” interno: la fiducia nella propria capacità di influenzare gli eventi; non sentirsi inermi e impotenti di fronte alle difficoltà, in balìa del destino, ma credere di avere comunque un modo per agire sulla realtà
  • “Ottimismo appreso” (Seligman, 1990): induce a credere che i propri sforzi saranno premiati, la fiducia che le cose andranno bene se ci si impegna
  • Una buona relazione con almeno un genitore accudente, caregiver o altro adulto della famiglia o comunità allargata
  • Atteggiamento generale di fiducia nella vita (le “distorsioni ottimistiche”)
  • Avere un sogno e coltivare la speranza

Un esempio di resilienza ci è dato dal film “La ricerca della felicità” di G. Muccino del 2006. Il film è ispirato a una storia realmente accaduta: quella di un imprenditore oggi milionario che durante i primi anni ’80 visse giorni di intensa povertà con un figlio a carico e senza una casa dove poterlo crescere. Nonostante le innumerevoli difficoltà e i fallimenti il protagonista conserva una visione positiva di sé ed una buona consapevolezza sia delle abilità possedute che dei punti di forza del proprio carattere. La capacità di porsi nuovi traguardi e di pianificare passi graduali per il loro raggiungimento, continuando a coltivare il suo sogno, lo porteranno infine al successo.

Verso una prospettiva sistemica…

Mi sembra importante sottolineare la natura dinamica della resilienza: più che una serie di tratti immutabili essa implica una pluralità di processi che variano a seconda del tempo. Inoltre essa è inserita in una fitta rete di relazioni ed esperienze che si dipanano nel corso dell’esistenza individuale e attraverso diverse generazioni.

La resilienza familiare

Non è solo un individuo a poter essere resiliente, ma anche le famiglie. Ogni famiglia è un sistema, un’unità funzionale più o meno competente a modulare lo stress, affrontare le crisi e superare situazioni di disagio prolungato.

I presupposti per osservare e studiare in che modo una famiglia possa essere resiliente sono:

  • Passare da un modello del deficit/danno a un modello di risorsa: spesso la nostra “deformazione professionale” di clinici ci porta a concentrare la nostra attenzione soprattutto sugli aspetti disfunzionali, patologici, dimenticando le risorse del singolo o della famiglia che osserviamo.
  • Superamento di falsi miti:  un falso mito è ad esempio quello che le famiglie sane non hanno problemi. Ciò che caratterizza le famiglie sane non è l’assenza di difficoltà o di sofferenze, quanto piuttosto la loro capacità di affrontarle.

Vediamo quali sono i principali fattori di resilienza familiare grazie alle osservazioni di Froma Walsh (2008), nota terapeuta della famiglia:

  1. Dare un senso alle avversità: le famiglie resilienti ritengono i problemi delle sfide condivise e li affrontano assieme; contestualizzano le avversità ritenendole “normali” in determinati momenti della vita; traducono le crisi in sfide comprensibili da gestire senza ambiguità e incertezze. Tale caratteristica è molto importante poiché il modo in cui una famiglia definisce un problema determinerà le strategie che adotterà per affrontarlo. Dare un significato alla realtà critica fa in modo che essa diventi tollerabile, magari con il gioco e una dose di umorismo. A tal proposito è famosissima la scena del film “La vita è bella” di R. Benigni (1997) in cui il protagonista, deportato nel campo di concentramento nazista con il figlio trasforma la terribile e indicibile esperienza in un gioco a premi per il bambino!
  2. Conservare un atteggiamento positivo coltivando la fiducia nelle proprie capacità e l’idea di controllo sulle situazioni.
  3. Avere un sistema di valori cui ancorarsi nei momenti di difficoltà: ad esempio la religiosità o spiritualità
  4. Comportamento pro sociale: mettere la propria esperienza e vissuto di sofferenza al servizio degli altri
  5. La flessibilità: una famiglia è più resiliente quando è flessibile, cioè quando riesce a ricalibrare le relazioni e riorganizzare vecchi schemi di relazione per accogliere la nuova realtà. Accogliere il nuovo mantenendo una stabilità, per esempio mantenendo una routine quotidiana, delle regole ecc…
  6. La coesione: le famiglie resilienti sono quelle che hanno la giusta dose di intimità e differenziazione tra i membri (né troppo vicini, né troppo lontani).
  7. Comunicazione chiara: raccontare la verità senza segreti e ambiguità, comunicazioni chiare e dirette alle persone interessate evitando le triangolazioni.
  8. Condivisione delle emozioni: aiutare i membri a condividere i propri stati d’animo per dare e ricevere conforto.
  9. Umorismo
  10. Trovare insieme strategie per risolvere i problemi (gestire i conflitti, concentrarsi sugli obiettivi attraverso piccoli passi concreti, predisporre un “piano B”

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